Ecco la risposta alla pesca commerciale troppo scarsa

Esempio di acquacoltura

Il consumo medio di pesce nell’Unione europea è di 23 chili a testa all’anno in Italia siamo addirittura sopra la media con circa 26 kg. Tre quarti di questo pesce provengono dal mare, e solo un quarto da allevamenti. Questa situazione sta diventando insostenibile, non solo da noi, ma anche a livello globale.

Anche se diversi studi indichino come sia meglio limitare comunque il consumo di pesce, sembra che la pesca intensiva non accenni a diminuire e questo a discapito delle risorse naturali. Nonostante le associazioni di settore provino in più occasioni a scaricare la colpa a pescatori sportivi o ad altre cause, la verità lampante è che molte specie rischiano di scomparire, a partire dal tonno rosso; pesce che è stato più volte al centro di polemiche tra Fipsas e pescatori professionisti.

L’allevamo di pesci come strada perseguibile

In questo quadro così poco incoraggiante una soluzione potrebbe essere quella di aumentare la quantità di pesca proveniente da allevamenti che arriva sulle nostre tavole. Se si pensa anche alla popolazione globale in aumento, l’allevamento di pesci, molluschi e crostacei potrebbe essere una risorsa molto importante.

In Europa, però il settore dell’acquacoltura non si sta evolvendo come ne resto del mondo, dove si è registrato un incremento medio del 7% negli ultimi 15 anni. Il Paese al primo posto per la produzione di pesce è la Cina, con circa 66 milioni di tonnellate all’anno; di cui 16 milioni provengono dalla pesca e 50 milioni da allevamenti. Secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea, i Paesi dell’Ue producono 6 milioni di tonnellate all’anno, di cui solo 1,25 milioni da acquacoltura: si producono soprattutto cozze (39%), trote (14,7%) e salmoni (13,6%). Il principale fornitore extra-Ue è la Norvegia (20%), seguito da Cina (8%), Islanda (5%) ed Equador (5%).

Valentina Tepedino, direttrice di Eurofishmarket, parla dei pesci d’allevamento come una risorsa indispensabile:

L’acquacoltura è una risorsa irrinunciabile per il futuro. In Europa, e non solo, si fa molta ricerca per mettere a punto tecniche sempre più sostenibili per l’ambiente. Quella più all’avanguardia, per la piscicoltura, prevede l’uso di gabbie galleggianti poste al largo e ancorate al fondo. Queste gabbie sono aperte e l’acqua è quella dell’ambiente circostante.

I problemi legati all’aquacoltura

Come ha detto l’esperta di Eurofishmarket l’acquacoltura ha però un forte impatto sugli ecosistemi: innanzitutto gli ambienti dove questi pesci vengono allevati, bacini d’acqua dolce (per le specie di questo ambiente), oppure dentro a reti o cisterne, poste in mare, in cui i pesci sono nutriti con mangimi. Questi mangimi comprendono sempre una certa percentuale di olio o farina di pesce: in pratica si usano pesci meno pregiati per produrre pesci più pregiati. Per produrre, per esempio, un chilo di salmone, sono necessari circa tre chili di pesce di altro tipo.

Sempre Valentina Tepedino è molto ottimista però sulla questione dei mangimi:

La ricerca sui mangimi mira ad avvicinare a 1:1 il Fifo (Fish In: Fish Out) ossia il rapporto tra il pesce di cattura usato per alimentare quelli di allevamento e il pesce di acquacoltura prodotto. Si utilizzano anche farine vegetali, ma i pesci carnivori hanno bisogno di una certa quantità di farina di pesce, anche perché in caso contrario la composizione nutrizionale cambia e vengono a mancare i famosi omega-3.

Non si dimentichiamo poi che spesso, per garantire una buona produzione e impedire la diffusione di malattie e parassiti, sono utilizzati disinfettanti, farmaci, fungicidi e altre sostanze estranee che possono passare nell’ambiente, e c’è anche la possibilità che i pesci allevati escano dalle vasche, andando a inquinare geneticamente gli ecosistemi naturali.

Ma anche qui Valentina Tepedino è possibilista:

Le grandi dimensioni (degli allevamenti ndr.) permettono di avere una bassa densità di individui, fattore importante perché così i pesci sono meno soggetti a malattie e non sono necessari trattamenti con farmaci: si riducono le spese, l’inquinamento e si ottiene pesce migliore, un risultato che accontenta sia gli ambientalisti, che i consumatori e gli allevatori.

Un esempio di allevamenti molto estesi proprio qui in Italia

Un esempio di impianti con allevamenti di tipo estensivo, come quelli citati dall’esperta, li abbiamo proprio qui in Italia, nella laguna veneta e nel delta del Po: il pesce è intrappolato all’interno di grandi bacini nei quali si nutre di ciò che trova. Non si aggiungono mangimi né farmaci e la produttività degli impianti è naturalmente molto più bassa rispetto agli allevamenti intensivi.

Giovanni Salami, titolare dell’impianto di vallicoltura di Valle Smarlacca spiega così la sua attività:

È un sistema di allevamento molto antico ma le tecnologie moderne che permettono, per esempio, di proteggere il pesce dalle temperature troppo alte o troppo basse, lo rendono molto interessante. A Valle Smarlacca alleviamo orate, branzini, anguille e diversi tipi di cefali, pesci poco noti ai consumatori, che meritano di essere valorizzati, perché sono eccellenti per il periodo autunno/inverno e hanno un prezzo contenuto.

Il nostro pesce ha avuto nel 2014 la certificazione di produzione biologica e il marchio QC (qualità controllata) della Regione Emilia-Romagna. Purtroppo i consumatori non conoscono la vallicoltura: è necessaria una campagna informativa che, insieme ai dati presenti sulle etichette (da leggere sempre), metta il consumatore in grado di scegliere, magari spendendo un 20% in più rispetto al pesce di allevamento, per avere un prodotto del tutto analogo al pescato.

Fonte:

Corriere della Sera

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